“IL CARCERE È UNO SPECCHIO”: BREVE ANTOLOGIA ABOLIZIONISTA

RIFLESSIONI, RISCRITTURE E ALTRO

La condizione carceraria riguarda coloro che stanno dentro
ma come problema di civiltà è prima di tutto un problema di chi sta fuori 
(Gustavo Zagrebelsky)

This too I know ­­– and wise it were
If each could know the same­ –
That every prison that men build
Is built with bricks of shame,
And bound with bars lest Christ should see
How men their brothers maim
(Oscar Wild, The Ballad of Reading Gaol)

Nei giorni in cui arriva la notizia che perfino nella Turchia del muscolare Erdogan il governo ha deciso un alleggerimento delle sue carceri sovraffollate decretando il rilascio di almeno 45mila detenuti (tra i quali non rientrano, tuttavia, i prigionieri per motivi di dissidenza politica), fa ancora più rumore il silenzio sul fronte delle carceri italiane. Le proteste di inizio marzo 2020, provocate dal panico legato all’emergenza Covid-19, avevano portato al centro dell’attenzione uno dei grandi rimossi della società italiana, ovvero la disastrosa situazione delle condizioni carcerarie subite dagli oltre 60mila detenuti della Penisola. Tuttavia i media, monopolizzati dalla pandemia, hanno rapidamente abbandonato la questione (salvo alcune eccezioni meritorie, come le inchieste di Giuseppe Rizzo su Internazionale).

Proprio nel momento in cui gran parte dell’umanità vive in una clausura forzata, e per i più sfortunati non si tratta certo di una condizione attuabile con automatica serenità (motivo per cui risulta ancora più sconcertante «l’arroganza, la saccenza, la violenza mentale con cui si brandisce, pronuncia, incarna […] l’hashtag #iorestoacasa»), proprio ora è importante rilanciare i motivi alla base del superamento dell’istituzione-carcere. Se si vuole davvero costruire una società più giusta, l’abolizionismo carcerario dovrà necessariamente esserne uno dei fondamenti. 

1. «Carmelo Musumeci ha trascorso 26 anni della sua vita in carcere. Nel 1992 venne condannato all’ergastolo ostativo, due anni fa è stato liberato con la condizionale. In questi giorni sta circolando un suo articolo, ripreso da uno che scrisse quando si trovava in prigione, sull’importanza dei contatti familiari per un detenuto. 

“In carcere la libertà è data con il contagocce”, mi racconta. “Se togli il contatto con l’esterno, diventa tutto difficile. Il permesso premio, le uscite, sono momenti fondamentali nella quotidianità, si vive per quello. In molti poi non possono beneficiarne per il regime ostativo in cui si trovano, resta solo il colloquio. Le restrizioni attuali sono anche comprensibili, ma si inseriscono in un contesto di già ampie limitazioni. I detenuti rischiano di perdere il loro ossigeno”. […]

Nel 2018, il Regno Unito ha deciso di installare un telefono all’interno delle sue celle, dando la possibilità ai detenuti di chiamare i parenti in ogni momento della giornata. La Francia ha preso lo stesso provvedimento, mentre in diversi paesi europei si tratta della normalità già da tempo. L’approccio italiano è molto diverso: i detenuti hanno a disposizione solo 10 minuti di chiamata a settimana. 

Come sottolinea Musumeci, in carcere una telefonata può cambiare la vita. “Un detenuto ha tanti momenti di sconforto durante la giornata, attimi difficili che possono portare a brutte conseguenze”, mi spiega. “Avere la possibilità di telefonare a un proprio familiare, sentire la voce dei figli, può aiutare molto. Sono convinto che la liberalizzazione delle telefonate nelle carceri possa contribuire a ridurre il tasso di suicidi”. Negli istituti italiani nel 2019 si sono tolte la vita 53 persone, un dato ben superiore alla media europea

Con l’emergenza Covid-19, si stanno allentando le maglie relative alle comunicazioni con l’esterno. Diverse carceri hanno consentito l’utilizzo di Skype e c’è maggiore flessibilità anche sulle telefonate. “Questa occasione può aumentare la consapevolezza che un incremento dei contatti telefonici esterni per i detenuti non è un male”, spiega Susanna Marietti, coordinatrice di Antigone. “Oggi viene fatto per colmare l’assenza di colloqui nelle zone a rischio, un domani potrebbe avvenire in parallelo a essi, permettendo il progresso di un sistema pachidermico”.

In passato si era già provato a intervenire sul tema. Nel 2013 la Commissione per le questioni penitenziarie del ministero della giustizia aveva firmato una disposizione che prevedeva l’organizzazione di colloqui via Skype nelle carceri. Non è quasi mai stata recepita. Gli Stati generali dell’esecuzione penale del 2017 avevano poi proposto un pacchetto che conteneva misure sulla tutela dell’affettività dei detenuti. Quella parte non venne inserita dal successivo governo giallo-verde nei decreti legislativi in esecuzione della legge delega. Anche se la legge lo consente, nell’81,3 per cento delle carceri non è poi possibile collegarsi a internet. 

Oggi, di fatto, l’emergenza Covid-19 sta obbligando la sperimentazione di alcuni di questi punti. “Le restrizioni sono accettabili quando hanno un senso, quando si è davanti a un pericolo. Ma che rischio può comportare una liberalizzazione delle comunicazioni con i propri cari?”, chiosa Musumeci. “La speranza è che dal male di questi giorni possa venire qualcosa di buono per i diritti futuri dei detenuti”» (Luigi Mastrodonato, Prigionieri del virus, Internazionale, 3/3/2020)

2. «Il carcere è uno specchio, e torna utile ricordarlo quando si ha la malasorte, o la curiosità, di affacciarvisi. Nel caso dell’Italia, si scopre presto che l’immagine riflessa è tra le peggiori in Europa, dove ha diversi primati. Per esempio, è il secondo per tasso di affollamento, preceduto da Cipro e seguito da Ungheria e Turchia. Ed è il settimo per numero di detenuti: nelle celle italiane sono rinchiuse sessantamila persone, diecimila in più di quelle che possono contenere. Il tasso di affollamento è del 120 per cento, ma in strutture come quelle di Taranto si raggiunge anche il 200 per cento. È una situazione soffocante, e una delle conseguenze è che dal 2000 a oggi in carcere si sono suicidate 1.065 persone. 

Una cosa che l’Italia ha in comune con alcuni stati dell’Unione europea è la crescita enorme del numero di persone recluse. In Francia nel 2000 erano 48mila, oggi sono 74mila; nel Regno Unito si è passati da 64mila a 82mila; in Italia da 53mila a 60mila, ma nel 1990 erano la metà. 

Tutto questo è avvenuto nonostante i reati nel tempo siano diminuiti. Cosa spiega allora l’espansione del carcere? Le ragioni sono complesse e vanno cercate nelle crisi economiche che hanno colpito soprattutto la classe media e creato più poveri, nei tagli allo stato sociale e nell’indebolimento della politica. Dal cortocircuito di questi elementi, secondo l’antropologo francese Didier Fassin, nasce l’ossessione per la sicurezza e la punizione. “Gli individui si dimostrano sempre meno tolleranti (…) le élite politiche rafforzano o addirittura anticipano le inquietudini securitarie dei cittadini (…) per trarre benefici elettorali”, scrive in Punire, una passione contemporanea (Feltrinelli 2018). A farne le spese sono per lo più tossicodipendentistranieri e poveri» (Giuseppe Rizzo, Abolire il carcere, prove di utopia in Europa, Internazionale, 19/6/2019)

3. «Il carcere danneggia la salute mentale. Sovraffollamento, varie forme di violenza, solitudine forzata, mancanza di privacy, mancanza di attività significative, isolamento dai social network, insicurezza riguardo alle prospettive future […]. I disturbi mentali tra i detenuti sono considerevolmente più numerosi rispetto al resto della comunità e studi in tutto il mondo hanno dimostrato che i tassi di suicidio nelle carceri sono fino a dieci volte superiori a quelli del resto della popolazione. I detenuti hanno meno probabilità di riconoscere le loro esigenze di salute mentale e di ricevere assistenza o cure psichiatriche. Sono più sensibili durante il periodo di custodia in carcere» (Organizzazione mondiale della sanità [traduzione di Roberta Errico])

4. «Conosciamo tutti gli inconvenienti della prigione, e come sia pericolosa, quando non è inutile. E tuttavia non “vediamo” con quale altra cosa sostituirla. […] Questa “evidenza” della prigione dalla quale ci distacchiamo a fatica, si fonda prima di tutto sulla forma semplice della “privazione di libertà”. Come potrebbe la prigione non essere la pena per eccellenza in una società in cui la libertà è un bene che appartiene a tutti nello stesso modo e al quale ciascuno è legato da un sentimento “universale e costante”? La sua perdita ha dunque lo stesso prezzo per tutti; assai più dell’ammenda, essa è castigo “egalitario”. […] In più, [la prigione] permette di quantificare esattamente la pena secondo la variabile del tempo. Esiste una forma-salario della prigione, che costituisce, nelle società industriali, la sua “evidenza” economica. E le permette di apparire come una riparazione. Prelevando il tempo del condannato, la prigione sembra tradurre concretamente l’idea che l’infrazione ha leso, al di là della vittima, l’intera società. Evidenza economico-morale di una penalità che monetizza i castighi in giorni, mesi, anni, e che stabilisce equivalenze quantitative delitti-durata. Di qui l’espressione così frequente, così conforme al funzionamento delle punizioni, benché contraria alla teoria scritta del diritto penale, che si sta in prigione per “pagare il proprio debito”. […] Ma l’evidenza della prigione si fonda anche sul suo ruolo, supposto o preteso, di apparato per trasformare gli individui. Come potrebbe la prigione non essere immediatamente accettata, quando, rinchiudendo, raddrizzando, rendendo docili, non fa che riprodurre, salvo accentuarli un po’, tutti i meccanismi che si trovano nel corpo sociale?» (Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 2014 [ed. or. 1975], pp. 252-253).

5. Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta, Abolire il carcere: una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, Milano, Chiarelettere, 2015:

«Perché, dunque, fare a meno del carcere? Semplice: perché a dispetto delle sue promesse non dissuade nessuno dal compiere delitti, rieduca molto raramente e assai più spesso riproduce all’infinito crimini e criminali, e rovina vite in bilico tra marginalità sociale e illegalità, perdendole definitivamente. E perché mette frequentemente a rischio la vita dei condannati, violando il primo degli obblighi morali di una comunità civile, che è quello di riconoscere la natura sacra della vita umana anche in chi abbia commesso dei reati, anche in chi a quella vita umana abbia recato intollerabili offese» (Luigi Manconi, p. 4)

«C’è poco da dire, il carcere non costituisce un efficace strumento di punizione, dal momento che quanti vi si trovano reclusi sono destinati in una percentuale elevatissima, più del 68 per cento, a commettere nuovi delitti. Non produce, dunque, l’effetto di ridurre il tasso generale di criminalità ma consegue il risultato opposto: innalzarlo ulteriormente, affinando le capacità delinquenziali dei detenuti, insediandoli più profondamente nel tessuto della illegalità e negando loro ogni alternativa di vita. […] Allo stato attuale, le diverse finalità della carcerazione, inoltre, tendono a ridursi via via a una sola e a concentrarsi, alla prova dei fatti, nell’esclusiva funzione di affliggere il condannato per il reato commesso. […] Attraverso questo processo, la pena si mostra nella sua essenzialità come vera e propria vendetta. In quanto tale, essa risulta priva di qualunque effetto razionale e totalmente estranea a quel fine che la Costituzione indica nella “rieducazione del condannato”» (Luigi Manconi, pp. 7-8)

«Le violenze, non solo quelle fisiche, e le violazioni sono all’ordine del giorno: condizioni di vita inadeguate e carenze strutturali; mancanza di operatori qualificati e di attività risocializzanti; scarse opportunità formative e lavorative; assenza di una reale presa in carico da parte dei servizi sul territorio e di percorsi individuali. Scorgendo i dati sulla composizione della popolazione carceraria, inoltre, ci si rende facilmente conto di quanto questa sia rappresentata, per la maggior parte, da poveri, tossicomani e stranieri. Categorie deboli, che non hanno la forza economica di sostenere un processo e sono quindi private di una difesa legale adeguata; individui ai margini che, in molti casi, avrebbero bisogno di cure o di una rete di welfare funzionante. Si stima che i detenuti veramente pericolosi, quelli incarcerati per omicidi, reati associativi, traffico internazionale di stupefacenti, rappresentino a malapena il 10 per cento del totale. Sarebbe conveniente per tutti quindi ­– per i detenuti che prima o poi torneranno a vivere in un contesto sociale, per i cittadini che con l’ex detenuto potrebbero avere a che fare, per lo Stato che impiega ingenti risorse umane ed economiche per alimentare il fallimentare sistema carcerario ­– imporre una robusta sterzata verso un prioritario utilizzo delle misure alternative alla detenzione» (Valentina Calderone, pp. 30-31)

«Il carcere è il luogo chiuso per eccellenza. Sottratti a ogni possibilità di controllo, sconosciuti e impenetrabili, gli istituti penitenziari possono esprimere al loro interno i meccanismi di violenza più feroci. […] Dalle piccole vessazioni quotidiane in cui elementari richieste vengono negate ­­– avere dei libri, appendere delle foto, acquistare del cibo – o utilizzate come merce di scambio per ottenere ubbidienza e disciplina; fino a episodi di veri e propri maltrattamenti fisici e psicologici» (Valentina Calderone, p. 36)

«C’è un dato a molti sconosciuto ma per noi fondamentale: il corpo di polizia penitenziaria è quello maggiormente colpito da suicidi dei propri uomini. Negli ultimi dieci anni oltre cento agenti che prestavano servizio in carcere si sono tolti la vita. Un dato allarmante che, da solo e senza bisogno di ulteriori spiegazioni, aiuta a percepire la crudele realtà: di carcere si muore. Un motivo in più per pensare di farne a meno» (Valentina Calderone, p. 51)

«È del resto importante riflettere sulle caratteristiche essenziali delle pene non detentive, fondate non sull’espulsione del condannato dal contesto sociale, ma sul suo allontanamento dalle attività correlate al reato (come per le sanzioni interdittive) o sull’introiezione, da parte sua, di comportamenti diversi, anche attraverso condotte riparatorie (per la collettività o la sola vittima). Per questa loro caratteristica, tali sanzioni consentono (certamente più e meglio del carcere) di attuare quel reinserimento sociale del condannato attraverso una sua responsabilizzazione, cui, secondo l’articolo 27, comma 3 della Costituzione, devono tendere le pene. Tale maggiore efficacia delle pene non detentive consente, del resto, di minimizzare il rischio di recidiva, con effetti positivi non solo per la sicurezza dei cittadini ma anche per la tenuta complessiva dell’ordinamento.[…] Pertanto, secondo questo programma minimo di avvicinamento all’abolizione del carcere, le pene non detentive dovrebbero rappresentare la soluzione da preferire in linea generale, riservando il carcere ai soli reati non punibili altrimenti, commessi da soggetti la cui pericolosità sociale ne giustifichi una detenzione temporanea» (Federica Resta, pp. 86-87)

6Basta dolore e odio. No prison, a cura di Livio Ferrari e Massimo Pavarini, Adria, Apogeo Editore, 2018:

«La pena carceraria aveva al suo apparire persuaso per la sua efficacia preventiva. Il tempo ci ha mostrato, senza ombra di dubbio, da vero galantuomo, che ci eravamo illusi: il carcere ha clamorosamente fallito ogni finalità preventiva della pena. I dati di questo fallimento sono davanti agli occhi di tutti coloro che intendono il vero senza pregiudizi ideologici: il carcere non solo tradisce la sua mission preventiva, cioè non produce sicurezza dei cittadini nei confronti della criminalità, ma nel suo operare viola sistematicamente i diritti fondamentali, cioè attenta alla dignità umana dei detenuti e delle loro famiglie. […] I detenuti risocializzati alla legalità sono ovunque pochi e lo sono “nonostante” il carcere e non “in virtù” del carcere. La recidiva, in quasi tutto il mondo, supera il 70%. […] Il carcere ­–pure il migliore del mondo – non riuscirà mai ad educare alla legalità attraverso la sofferenza della privazione della libertà personale. L’esperienza oramai secolare delle conseguenze della detenzione ci insegna, al contrario, che la pena del carcere educa alla delinquenza e alla violenza» (Livio Ferrari, Massimo Pavarini, pp. 26-28)

«Riflettete: è mai possibile che le carceri di tutto il mondo siano abitate al 90% solo ed esclusivamente da persone povere? Con ciò non vogliamo insinuare che la “detenzione sociale” sia il prodotto di una accentuata propensione a delinquere dei poveri. Le migliori ricerche scientifiche ci suggeriscono una diversa spiegazione: la pericolosità criminale è distribuita equamente in tutte le classi sociali, ma ad essere puniti e a finire in carcere sono prevalentemente coloro che godono di minore immunizzazione dal sistema penale, cioè coloro che sono economicamente, culturalmente e socialmente più deboli» (Livio Ferrari, Massimo Pavarini, pp. 30-31)

«È importante sapere che la maggior parte delle carceri non sono “riempite” con persone pericolose. […] I mostri immaginati nei nostri incubi notturni ­­– il serial killer o quegli individui altrettanto decisamente pericolosi – sono veramente rarissimi. Mediamente la persona che entra in carcere ha un basso livello di istruzione e scarse capacità di lettura e di calcolo, è disoccupato e proviene da un ambiente a basso reddito o che si è impoverito. C’è quindi un collegamento più forte tra povertà e carcere che quello esistente tra pericolosità e carcere» (David Scott, Deborah H. Drake, pp. 36-37)

«È stato provato ripetutamente che chiudere le persone in carcere per punirle per quanto hanno fatto non funziona e, di fatto, frequentemente stimola la violenza invece che calmarla. […] Gli ambienti carcerari sono pieni di scompensi di potere, di violenza razziale e sessuale, di discriminazione e di relazioni sociali gerarchizzate. Tutti questi elementi dell’ambiente detentivo possono pertanto rinforzare le stesse idee e divisioni sociali che coloro che hanno perpetrato crimini di odio portano con loro in carcere e sono al primo posto. Le prigioni utilizzano e rinforzano relazioni sbilanciate e dannose e, con grande probabilità, aggravano idee di odio piuttosto che metterle in discussione o capovolgerle» (David Scott, Deborah H. Drake, pp. 38-39)

«La carcerazione è uno dei modi meno probabili per ricondurre i carcerati ad una esistenza legale […]. La reintegrazione nella società richiede il rafforzamento dei legami sociali; per costruire un senso di identità personale e auto-efficacia ha bisogno di esperienze quotidiane di autonomia e responsabilità; ha bisogno di supporto e responsabilizzazione, autocontrollo, cooperazione e successo nel far fronte alle sfide della vita quotidiana privata e professionale. Il carcere non favorisce questo tipo di esperienze ­– piuttosto il contrario. La privazione della libertà non facilita il giusto tipo di apprendimento sociale» (Johannes Feest, Sebastian Scheerer, p. 102)

«Le relazioni sociali vengono distrutte dal luogo di detenzione. Il carcere crea uno spazio d’isolamento sociale dove il detenuto, strappato al proprio ambiente, e non più appartenente alla comunità precedente, è diventato uno “straniero”. […] Il detenuto sperimenta inevitabilmente l’abbandono perché non fa più parte del suo mondo precedente e non conserva alcun diritto anteriore di appellarsi a una più vasta comunità per aiuto o assistenza. Spesso non ha voce o nessuno l’ascolta. Avulso dalla società e persino dalla propria personalità, lo straniero forzato diventa estraneo e diverso. Ritenuto un “nemico interno”, ostile alle norme e ai valori della cultura rispettosa della legge, il detenuto è lo straniero conosciuto – la persona che per alcune caratteristiche è considerata una minaccia per la comunità morale. […] Una volta che il marchio è stato applicato è molto difficile rimuoverlo» (David Scott, pp. 169-171)

«È un fatto storicamente accertato che la struttura subordinante del carcere è influenzata da fattori quali razza e classe sociale […], rendendo l’imprigionamento un vero e proprio strumento di controllo razziale. […] Ci sono pochi dubbi sul fatto che la prigione fornisca un modello di società costruito attorno ad un essenzialismo di razza e classe: è un’eredità del colonialismo come progetto di subordinazione e sproporzionalità razziale lungo le linee di classe. […] Assumendo questo come punto fermo, il carcere è un’istituzione oppressiva, profondamente radicata nella nostra società e formalmente legittimata. In sostanza, la violenza carceraria è un bastione solido e affidabile di subordinazione sociale» (Simone Santorso, pp. 256-257)

7. Gherardo Colombo, Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla, Milano, Ponte alle Grazie, 2020: 

«Per imparare bisogna soffrire: questo era (ed è spesso anche oggi) il riferimento degli educatori; bisogna soffrire anche per imparare a rispettare le leggi: si ubbidisce non per forza della ragione ma perché si teme una sofferenza maggiore di quella che costerebbe fare ciò che si vuole (disubbidire). Ma siccome nessuno (salvo casi di masochismo e fraintendimenti) vorrebbe che gli venisse imposta una sofferenza, perché si accetti che chi ha sbagliato deve essere punito è necessario rompere qualsiasi riconoscimento reciproco: posso ammettere che è giusto fare soffrire soltanto colui che considero diverso da me. Quando non si riconosce che l’altro è uguale a se stessi, la morte, la tortura, i lavori forzati, la privazione della libertà sono accettate largamente dalla cultura generale, si trasformano in regola, in legge, e diventano il modo di rispondere della comunità alla violazione della legge» (pp. 32-33)

«Fare male (pur nell’esercizio della funzione autoritativa della risposta alla trasgressione) non può che insegnare, irrimediabilmente, a fare male: non si può insegnare a non uccidere uccidendo; non si può insegnare a non privare gli altri della libertà togliendola. La sofferenza imposta non può, non è in grado di convincere, e semmai insegna a obbedire. Ma chi obbedisce non è psicologicamente, se non giuridicamente, responsabile delle proprie azioni (ne è responsabile chi dà l’ordine). La pena, quindi, anziché creare responsabilità la distrugge. Distruggendo la responsabilità incanala la società verso la compressione della libertà, perché questa è inscindibile dalla responsabilità» (pp. 61-62) 

«È d’altra parte puramente illusorio che il carcere (la pena, la sofferenza imposta) abbiano il potere di riparare la vittima, o meglio il conflitto instauratosi tra lei e chi ha leso i suoi diritti, la sua dignità, la sua persona. Cosa riceve, la vittima, dalla sofferenza del colpevole? Solo ed esclusivamente la soddisfazione del desiderio di vendetta. Di un desiderio negativo, che andrebbe controllato invece che enfatizzato […]. La vittima […], dal fatto che il suo aggressore debba subire una pena, non riceve nulla, al di fuori della vendetta. Non è riparata, non è aiutata a superare il trauma subito dall’aggressione alla sua dignità, non è assistita nel recuperare, per quanto possibile, l’integrità perduta» (pp. 87-88)

8. «Sul tema della violenza non si cita mai abbastanza il famoso “Esperimento carcerario di Stanford”, un classico della ricerca in psicologia sociale: nel 1971 vennero reclutati con un annuncio su un giornale alcuni studenti “sani, intelligenti, di classe media, psicologicamente normali e senza alcun precedente violento”. L’esperimento doveva durare due settimane e coinvolgere i soggetti suddivisi casualmente in due gruppi, uno di guardie e uno di detenuti, in una simulazione di vita carceraria, allo scopo di mettere a fuoco le reazioni dei detenuti. Dopo soli cinque giorni, i lavori furono però interrotti: gli studenti che rivestivano il ruolo delle guardie si erano inaspettatamente trasformati in spietati aguzzini. Si constatava cioè la possibilità che alcune particolari situazioni sono in grado di indurre persone ordinarie a compiere i peggiori crimini. Il fatto che un gruppo fosse autorizzato a usare la forza mentre gli altri dovevano solo subirla aveva creato una tale dinamica di violenza. Il carcere è un problema anche per questo: è infatti un luogo in cui c’è una gerarchia, dove c’è uno al di sopra di te che comanda perché ha il potere della forza che può usare contro di te.» (Marcello Bortolato, Edoardo Vigna, Vendetta pubblica: il carcere in Italia, Bari-Roma, Laterza, Cap. 4 “Bella vita: vitto e alloggio gratis, e tutto il giorno davanti alla tv”)

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.